l’aria scolpita

08.03.2015 www.lachiavedisophia.com

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“- Potendo, passerei tutto il tempo a riflettere, riflettere, riflettere. Vorrei seguire liberamente i miei pensieri. Ecco cosa vorrei fare. Ma il puro ragionamento, forse è qualcosa che serve soltanto a costruire il vuoto, non trovi?

- Al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto.”

[ dialogo tratto dal libro L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio di Murakami Haruki ]

 

Non c’è nulla di più difficile da precisare del vuoto, nulla di più ambiguo da rappresentare dell’immateriale, nulla di più utopico da materializzare di un’assenza. A meno che, quella che sembra essere un’immateriale assenza, sia in realtà, materiale presenza.

Il vuoto, contenuto e definito dalla materia costruita, si presenta come un’assenza perché manca di quell’oggettualità che è propria della forma che viene associata all’esperienza dell’architettura. Pensare al vuoto nei termini dell’assenza, ci porta inesorabilmente verso un’unica direzione dove il vuoto viene ridotto ad una mancanza, ad una conseguenza, ad un risultato.

La direzione che potremmo prendere sarebbe diversa se ci trovassimo nel Jardin des Tuileries a Parigi, tra due lame di acciaio corten conficcate nel terreno; modellate, alte e vicine a tal punto da costringere l’occhio a rimbalzare da una all’altra, da spingerlo a scorrere lungo la sinuosità delle loro curve fino a prendere il volo verso l’unica porzione del mondo visibile, il cielo. Percorrendo questo vuoto ne sentiremmo la presenza.  La pesantezza della materia si dissolverebbe nella potenza dello spazio da essa generato, e tutto ciò che credevamo immateriale diventa materiale, tutto ciò che fisicamente si presentava come un’assenza arriva ai nostri sensi come una presenza. Il vuoto diventa aria scolpita.

Passo dopo passo, respiro dopo respiro, quel vuoto che stiamo attraversando si fa denso e presente, caricandosi di tensioni e vibrazioni a tal punto da diventare ai nostri occhi la sola e vera materia plasmata dallo scultore: è come se Richard Serra avesse costruito quel vuoto tra le lame prima ancora delle lame stesse. Percorro quel vuoto compresso, sento la compressione, sento la spinta delle due pareti che mi schiacciano e mi spingono avanti e in alto fino a svelare al mio sguardo ciò che prima era negato. Sento la vibrazione tra le due lame ruvide, brunite, dove la luce si increspa e le ombre si liberano; quella vibrazione che il vuoto accoglie facendo da cassa di risonanza ad una melodia che solo io posso sentire.

Lo sento sulla pelle quel vuoto, e lo sento dentro.

Costruire il vuoto significa costruire percezioni. Costruire percezioni significa costruire esperienze. E quando questo accade, i vuoti fisici diventano luoghi mentali, scrigni dove custodiamo le esperienze più profonde e dove nascono i pensieri più preziosi e liberi. Pensare e costruire il vuoto significa dare forma ad uno spazio che riesca ad entrarci dentro con una forza tale da elevarsi a luogo mentale divenendo il  terreno fertile dove coltivare la nostra anima. Perché il vuoto è l’unica condizione fisica e mentale dove tutto è libero, dove tutto accade, dove tutto cambia: “il luogo dove il pensiero può generare parole nuove1.

Il mio amore per l’architettura nasce dalla convinzione che essa abbia il potere di fare tutto questo. Non c’è nulla di più entusiasmante che dare forma ai propri pensieri e alle proprie fantasie progettando qualcosa che le possa contenere: l’architettura.

Se l’architettura trova la sua consistenza e la sua staticità nella forma, essa prende vita nel vuoto che questa forma contiene. Il vuoto immaginato e costruito diventa uno spazio carico, la cui immaterialità si concretizza nelle tensioni, nelle vibrazioni e nelle relazioni che si creano al suo interno. Il vuoto contenuto dalla materia si fa contenitore di vita: il vuoto si fa presenza. Una presenza che viene percepita in relazione al fluire del tempo accompagnato al fluire del movimento, dello sguardo, del pensiero. Una presenza che viene sentita, misurata, distillata.

L’architettura è vuoto e pieno che si generano l’un l’altro, è contemporaneamente lo spazio e il volume che lo contiene, la distanza tra le cose e le cose stesse. E’ contemporaneamente spazio e tempo, un’unità che il concetto giapponese del ma pone a principio di tutte le cose. A me piace pensare che l’architettura sia questa unità, e per questo debba sempre incondizionatamente porsi il nobile obiettivo di tendere ad essa.

In Giappone tutte le cose dipendono sempre dal ma. L’arte del combattimento, l’architettura, la musica, l’arte stessa di vivere, l’estetica, il senso delle proporzioni, la disposizione delle piante in un giardino dipendono sempre da un insieme di significati collegati tra loro e risultanti dal ma (…) Dietro ogni cosa esiste il ma, lo spazio indefinibile che è come l’accordo musicale di ogni cosa, l’intervallo giusto e la sua migliore risonanza2.

Se il ma viene definito in termini spaziali come la distanza naturale tra due o più cose che si trovano in continuità, e in termini temporali come la pausa naturale, l’intervallo tra due o più fenomeni che si succedono in continuità, mi è inevitabile pensare alla contaminazione a cui l’architettura e la musica sono soggette nel loro processo espressivo, dal momento che modellano la stessa materia: il vuoto e il pieno la prima, il silenzio e il suono la seconda.

Ho sempre pensato che la contaminazione di queste due discipline potesse dare origine a qualcosa di puro e mistico, e che nessuno meglio di Kengo Kuma potesse raggiungerlo. L’architetto giapponese, nel suo Padiglione del Tè, spingendosi oltre i confini dell’architettura e facendo propri gli strumenti della musica, celebra la sublime unione tra queste due arti in quello che Rothko definisce lo spazio del silenzio: “Lo spazio del silenzio è luogo del pensiero. Lo spazio del silenzio è luogo dell’emozione”.

Se il vuoto in musica è l’intervallo tra due note, il silenzio necessario alla loro esistenza; il vuoto in architettura è la distanza tra due elementi, lo spazio necessario affinchè ogni singola forma viva del proprio respiro e dell’eco dell’altra, il luogo sacro dove ascoltare il nostro respiro e l’eco dei nostri pensieri.

Sì, “al mondo ci vuole anche qualcuno che costruisca il vuoto, perché scolpendo il vuoto scolpiamo tutto ciò che al suo interno prende vita: scolpiamo i suoni e i silenzi che lo attraversano, le emozioni che lo investono, le relazioni che lo abitano, i pensieri che lo contemplano.

E’ l’esperienza del vuoto che fa di esso una presenza. Ed è nella costruzione di quel vuoto che l’architettura si fa poesia.

 

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1   Parafrasando Adolf Loos in Il vuoto, riflessioni sullo spazio in architettura, di Fernando Espuelas

2   Michael Random, Giappone, la strategia dell’invisibile

 

immagine di copertina . kengo kuma_padiglione del tè_immagine tratta da Google